Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Il centenario del Pascoli
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 151, p. 3
Data: 26 giugno 1955


pag. 3




   Se Giovanni Pascoli avesse avuto la fibra gagliarda del Tiziano, sarebbe ancora tra noi e potrebbe festeggiare, il 31 dicembre prossimo, il suo anno secolare.
   Ho l'intrasentimento che questo centenario della nascita del poeta di Myricae non abbia riscaldato troppo le aure rarefatte dove sta anfanando la valetudinaria cultura italiana.
   La buccina di Carducci e l'harmonium di D'Annunzio richiamano più gente della viola d'amore di Pascoli. Eppure, secondo me, il Pascoli è poeta naturale e nativo, anche se non sempre grande, più degli altri due.
   Il Carducci è, nei momenti di felice riuscita, vero e perfetto poeta e non soltanto poeta della storia, come fu detto da uno che s'intendeva pochissimo di poesia, ma anche poeta della natura e dell'anima.
   Il D'Annunzio, a dispetto dei suoi drappeggi, dei suoi paramenti, dei suoi arazzi, dei suoi intagli e frastagli, era anche lui, nei giorni buoni, alto e genuino poeta. Giosuè correva di continuo il pericolo di sdrucciolare nell'oratoria: Gabriele risicava sempre di affogare nel decorativo e nell'ornamentale. Anche il Pascoli aveva la sua pendenza di caduta: bambineggiava e giocherellava più del bisogno. Ma persino nei suoi cinguettamenti e sdilinquimenti fanciulleschi rimaneva sempre poeta, anche quando può dar noia e fastidio a quei lettori che cercano la schietta virilità. Ma fece malissimo l'arcisuocera della critica dittatoriale a tirar fuori, a proposito del Pascoli, il nome del povero Parzanese, che sarebbe come citare il grillo quando si parla dell'usignolo.
   Il poeta fu amareggiato fortemente dal modo col quale i sordi giudicavano le sue melodie, ma poi concluse: Ognun di noi ha quaggiù la sua croce: a me è toccata una delle peggiori, cioè quella filosofica.
   Il Pascoli aveva in se forze e ricchezze che gli consentivano di fare anche poesia storica, epica ed etica, cioè spirituale e Pascoli è anzi l'unico della triade famosa che senta certi lati del cristianesimo e che li sappia esprimere poeticamente, pur non potendo appartenere alla Chiesa di Cristo. Ma da Cristo fu più volte tentato, e non invano, perché il suo giovanile anelito rivoluzionario sì trasmutò, a poco a poco, nella visione e aspettazione dell'amore evangelico.
   L'opera del Pascoli è forse troppo ombrata di mestizia, ma racchiude accenti di tenerezza e profondità di commozione quali non si ritrovano mai nel poeta delle Odi barbare e tanto meno nel poeta delle Laudi.
   Il centenario di questo beato e sventurato poeta, che meriterebbe non solamente l'ammirazione, ma anche l'affetto, non ha suscitato, almeno per ora, che qualche conferenza, qualche lettura e qualche articolo. Aspettavo molto di più, ma forse i nostri uomini di lettere, affaccendati giornalmente a razzolare nelle ceste dei rigattieri d'Oltralpe per esibire alla nostra ignoranza scrittori anche di terz'ordine, purchè stranieri, non hanno tempo nè voglia, e tanto meno amore, per rammentare e rileggersi gli autentici poeti nati, per loro sfortuna, in terra italiana.


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